Proprio il 23 maggio 1993, ad un anno dalla strage di Capaci, cominciava la sua indagine che avrebbe portato, a Catania, a scoperchiare un sistema affaristico politico-mafioso e culminata con l’arresto di personaggi eccellenti. Ma da allora è come se ci fosse stata una battuta d’arresto nelle inchieste importanti. Cosa è cambiato dentro e fuori il Palazzo di Giustizia?
In Italia molte cose sono cambiate in questi anni. Nel 1993 lo tra scontro frontale con la mafia e i poteri illegali raggiunse il punto più alto, non solo per la reazione alle stragi, ma anche per via delle inchieste sulla corruzione che avevano travolto tutta una classe politica. Da li’ e’ partita una lenta e forte reazione contraria che ha avuto tra i suoi obiettivi il ridimensionamento della funzione di controllo della magistratura. Fino a quando si e’ trattato di fronteggiare proposte che apertamente volevano sottomettere i magistrati alla politica, l’opinione pubblica ha saputo reagire; ma quando l’attacco alla nostra indipendenza si e’ fatto più subdolo, tutto e’ cambiato.
Cosa vuol dire?
Voglio dire che la magistratura di oggi non e’ più la stessa, perché vive sulla sua pelle la crisi della giustizia che in gran parte e’ causata dal rifiuto della politica di intervenire con strumenti adeguati. La domanda di giustizia e’ drogata dal fatto che nel nostro paese conviene violare la legge. I processi sono interminabili e finiscono per andare a vantaggio di chi ha torto. Questo fa crescere il contenzioso e rende difficile dare risposte nei tempi che i cittadini si attendono.
Inoltre e’ molto più difficile rispetto al 1993 indagare sui potenti, non solo perché la la magistratura e’ cambiata – ha un assetto più gerarchico ed e’ sommersa di carichi di lavoro ingestibili – ma perché il sistema di autogoverno tende a solidarizzare con gli altri poteri molto di più di quanto avveniva in passato, ed e’ disposto sempre meno a difendere i magistrati che operano come cani sciolti.
Nel corso della settimana della legalità sono state realizzate tante manifestazioni contro la mafia ma di antimafia recentemente si sono riempiti la bocca in molti. Alcuni personaggi in particolare sono finiti nella rete degli investigatori, mi riferisco al sistema Montante portato alla luce dalla Procura di Caltanissetta, cosa ne pensa?
Prescindendo del tutto dal merito delle inchieste in corso, possiamo dire che l’”antimafia organizzata” alleata dei poteri forti, si e’ abituata alla passerella e parla il linguaggio “politicamente corretto” dell’establishment. Lancia qualche strale contro gli sconfitti della mafia militare e gira la testa dall’altra parte quando si tratta di riconoscere la mafia da “concorso esterno” che infesta il mondo degli affari e le istituzioni .
E’ una cosa ben diversa da qual movimento rivoluzionario e di minoranza che parlava un linguaggio di rottura e i cui esponenti, come Giuseppe Fava e Peppino Impastato, vivevano emarginati come nemici pubblici fino a perdere la vita.
Può questa città essere tornata a prima del 1993, ai tempi delle amicizie, dei favori, delle corruttele e connivenze tra politica, istituzioni e mafia, seppur in altre vesti, a scapito delle regole invece imposte ai cittadini onesti?
Certo che si. Tutta la mafia e’ tornata a prima del 1993 perché ha capito che il modello stragista era perdente. Si figuri se ciò non e avvenuto a Catania dove cosa nostra si e’ confusa spesso con le Istituzioni e dove e’ stato inventato il sistema vincente della alleanza tra poteri. Ieri l’emergenza erano gli omicidi e le estorsioni, oggi e’ il concorso esterno, con tutti i limiti che incontra la sua repressione. I poteri illegali coinvolti in affari cercano credibilita’ prendendo le distanze da una criminalita’ violenta che non e’ più il core business di cosa nostra. E cosi si finisce per aprire la strada ad un nuovo razzismo: quello di chi punta l’indice contro i disagiati dei quartieri a rischio. Invece e’ proprio a San Giorgio a San Cristoforo e a Librino che le Istituzioni devono rifarsi una credibilita’. Bisogna parlare un linguaggio di inclusione che e’ esattamente l’opposto di quello sprezzante che viene utilizzato dagli pseudo antimafiosi e che gioca ad emarginare anziché a coinvolgere. Ci vuole un nuovo antagonismo culturale rispetto ai poteri forti per riconoscere la mafia che si mimetizza dietro gli affari e la politica, altrimenti non ne usciremo. Bisogna riportare in vita ed attualizzare l’”eresia” di Fava ed Impastato per sconfiggere le ipocrisie del nostro tempo.
Secondo lei è possibile che questo avvenga a Catania, una città sempre più “affetta” dall’individualismo, dove ognuno rema per sé, anche a causa di una crisi economica che ha impoverito le nostre tasche e dove tirare a campare diventa sempre più complicato, i giovani scappano sempre più numerosi all’estero mentre quelli meno agiati scendono a compromessi attratti dai “soldi facili” della malavita? E se fosse possibile, da dove si dovrebbe partire, basterebbe solo un’informazione libera a risvegliare le coscienze?
Nulla e’ impossibile se mutano gli schemi di intervento sociale ed alla mera repressione si sostituisce l’investimento sui ceti più disagiati. Ma se la cosa pubblica continua a subire il dominio del conflitto di interesse e ad essere condizionata dalle speculazioni e dal clientelismo, non rimarranno molte speranze. L’informazione libera e’ uno strumento, ma da sola non basta. Occorre partire da chi non ha nulla e vive nei quartieri a rischio; da chi accetta i soldi facili della mafia solo perché non ha alternative. Ma prima dobbiamo avere il coraggio di ammettere che l’intervento sociale in questi anni non c’e stato e questa città e’ stata ingiusta e classista verso i catanesi più bisognosi.
Lei è candidato di punta della corrente Autonomia e Indipendenza per il Csm nelle elezioni del prossimo 8 e 9 luglio. Come sta vivendo questa esperienza e non le dispiace andare via da Catania che mai come in questo momento ha bisogno di magistrati impegnati ed energici?
Catania ha bisogno di magistrati impegnati, quanto la magistratura – non solo catanese – ha bisogno di un autogoverno che difenda l’autonomia di chi si batte per l’affermazione delle regole. Non solo nel penale ma anche nel civile. Sento che adesso questa seconda necessita’ sia più importante. C’e’ un tempo per tutto nella vita, basta volerlo.
La magistratura sembra ancora in mano alla politica, non a caso il vicepresidente che è colui che poi gestisce l’organismo, non è un togato. Come si dovrebbe allora garantire questa indipendenza?
Il problema non e’ che il vicepresidente sia un laico, perché questo lo vuole Costituzione per bilanciare la gestione dell’autogoverno. Il problema e’ semmai che i laici siano sempre più politici attivi e militanti, anziché giuristi, come vorrebbe la Costituzione, e che i togati non siano capaci di arginare i tentativi della politica di limitare l’indipendenza dei magistrati con atti concreti. L’indipendenza non e’ una prerogativa individuale dei magistrati ma e’ un bene per la collettivita’. Oggi si arriva a sostenere che i giudici nel decidere devono “tenere conto dell’interesse dell’economia”, come e’ stato detto a proposito del caso ILVA. Noi dobbiamo difendere i diritti inviolabili dei cittadini che la Costituzione mette al primo posto. I membri togati del CSM avrebbero dovuto intervenire e protestare invece che rimanere inerti dinanzi a queste affermazioni per compiacere la politica.
Se dovesse dare un consiglio ai giovani che volessero rimanere a Catania cosa direbbe loro?
Direi loro di non smettere di credere ai loro sogni. Qualcuno di questi prima o poi si realizzerà e Catania ha bisogno di persone che hanno ancora voglia di sognare.